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Dal capitale della medicina alla medicina del capitale. Giulio Maccararo, sul mito del controllo demografico

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SIAMO TROPPI?

Prefazione di Giulio A. Maccararo.

Mahmood Mamdani - Il mito del controllo demografico
[ Collana Medicina e Potere. Feltrinelli (prima edizione 1974) ]

In questo titolo, di nostro c’e’ soltanto il punto interrogativo. Si tratta infatti di un messaggio - siamo troppi! - che in forma molto affermativa corre da qualche tempo lungo tutti i canali dell’informazione di massa, a raggiungere voi, noi e gli altri con toni di volta in volta suasivi, ammonitori o perfino minacciosi.
Vero o falso che sia, sta diventando un luogo comune: oggi del discorso e forse, domani del pensiero dei più. Anche per questo dobbiamo porlo in discussione: ciò significa, trattandosi di un messaggio, non solo riflettere sul suo testo, per metterne in luce e controluce i significati espliciti ed impliciti, ma anche individuarne correttamente le stazioni di emissione - chi diffonde e ripete questo messaggio? - e di destinazione - chi si vuole che sia raggiunto e toccato?


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Il Messaggio.

“Nel 1830 c’erano 1.000 milioni di uomini sulla terra. Nel 1930 erano 2.000 e nel 1960 3.000. Oggi la popolazione mondiale è di 3.500 milioni di uomini. Questa statistiche illustrano la velocità drammaticamente crescente dell’incremento democrafico… Continuando così è probabile che per la fine di questo secolo la terra dovrà far spazio ad oltre sette miliardi di esseri umani. In altre parole, durante i prossimi trent’anni la popolazione mondiale potrebbe raddoppiare. Al termine di tale periodo, ogni aggiunta di un miliardo di persone non richiederebbe nè un millennio né un secolo né un decennio… ma soltando cinque anni ed in seguito un tempo anche più breve… La esplosione demografica è uno dei problemi più importanti che dobbiamo affrontare… Può essere affrontato soltanto con una massiccia pianificazione preventiva… Non c’e’ più tempo da perdere in questa pianificazione.”(1)

Queste parole sono, appunto, l’apertura del “Messaggio sulla crescita della popolazione” indirizzato da R. Nixon al congresso americano e al mondo, il 18 luglio 1969. Parole diverse hanno ripetuto l’identico messaggio negli anni successivi ad opera di persone, enti, istituzioni, accademie, ecc.: la più grande amplificazione “scientifica” ne è stata il Club di Roma con il famoso rapporto I Limiti dello Sviluppo(2) e la più grande pubblicità politica è stata assicurata dai mass-media di ogni genere. Dunque: i siamo troppi o siamo sul punto di diventarlo. Davvero? Perché?

Qualcuno ne ha fatto una questione di spazio fisico(3) calcolando una data entro il quale gli uomini - continuando a moltiplicarsi come ora fanno - sarebbero tanti quanti i metri quadrati della superfice terrestre. Ma a un discorso così poco serio basterà replicare che quella data deve essere ancora molto lontana se è vero, come è vero, che raccogliendo oggi tutta la popolazione della terra sul suolo degli Stati Uniti si produrrebbe una densità corrispondente a quella attuale dell’Olanda, mentre il resto del mondo rimarrebbe perfettamente disabitato. Qualcuna altro ne ha fatto, più seriamente ma non troppo, un problerma di spazio psicologico, trasferendo all’uomo modelli di comportamento osservati in alcune specie animali , particolarmente nei topini bianchi da laboratorio.

“Benché siano creature notevolmente più semplici dell’uomo possono darci un quadro della possibile decadenza umana”(4) Tale il convincimento del più noto autore di studi corroboranti l’idea che già nel trentennio prossimo venturo la nostra specie possa realizzare sul pianeta, prima della saturazione fisica, quella psicologica - come intolleranza dell’affollamento e come affollamento dell’intolleranza - che, secondo gli stessi studiosi, è sorgente di aggressività e, in ultima analisi, dei conflitti tra individui, gruppi, classi e nazioni. Essi ritengono di poterne già indicare degli esempi in luoghi dove certamente non hanno mai vissuto. “E’ evidente che l’affollamento della gente nei campi di concentramento ha prodotto dei comportamenti patologici e che molti dei problemi propri dei ghetti e dei quartieri miserabili possono ben essere il sottoprodotto degli stress da superdensità sociale”(5)

Ma altri ancora si preoccupano dello spazio alimentare. La terra resta quello che è, dicono, mentre il numero dei bambini da nutrire cresce ogni ora: una carestia è tutto quello che ci attende. Qualcuno lo dice ancora prima degli altri e così scrive nel 1964 un libro intitolato: Carestia - 1975!(6) Nel 1975 tutto quello che accadrà, per quel che se ne vede alla vigilia, è che la produzione alimentare mondiale sarà aumentata insieme all’iniquità della sua distribuzione.

D’altra parte e sul filo della stessa logica, l’uomo - come animale capace soltanto di spogliare la terra delle sue risorse senza fecondarla con il suo lavoro: situazione in genere propria di altre specie che infatti vivono in popolazioni relativamente stabili finchè è stabile l’ambiente - sarebbe dovuto scomparire molte volte nella storia. Ai tempi dell’età della Pietra, quand’era cacciatore, il Club di Roma avrebbe intimato di scegliere tra il controllo demografico della sua specie e l’estinzione di quelle che veniva decimando per nutrirsi. Ma l’uomo preferì inventare la pastorizia e continuare a riprodursi. Divenuto pastore e arrivato ad un certo punto, la scelta sarebbe stata stringente e il Club di Roma non avrebbe mancato di segnalarla: o crescita zero o fine dei pascoli. Invece l’uomo invento l’agricoltura e, dalle parti della Mesopotamia, moltiplicò sessanta volte il suo numero in sei millenni. Questo solo per dire non che le risorse alimentari della terra sono inesauribili ma che l’uomo, oltre che trovarle, ne ha sempre create di nuove e nulla esclude che continui a farlo.

E infine c’e’ chi si preoccupa dell’esaurimento delle risorse energetiche e dell’accumulazione dei rifiuti: l’uno e l’altra conseguenti ad un troppo rapido aumento della popolazione umana. Un’analisi puntuale di questo problema esorbita dall’impegno e dalla capacità di questa pagina: ma conviene ricordare come sia stato dimostrato che la contaminazione ambientale non dipende tanto dal livello demografico e dallo sviluppo economico quanto dal modi di questo sviluppo, cioè dall’introduzione di processi tecnologici esattamente funzionali dall’accumulazione capitalistica ma assolutamente incongrui alla sopravvivenza dell’ecosfera. (7)

Tuttavia - si insiste - quale che sia la sorgente energetica utilizzabile e il possibile riciclaggio delle scorie inerenti, rimane il fatto - assimilante tutti gli altri su un traguardo pratico e teorico più avanzato - che “qualsiasi trasformazione di energia produce sempre una contaminazione termica”(8) come assevera il secondo principio della termodinamica.

Non si ricorda, così argomentando, che tale principio vale per i sistemi chiusi mentre la terra, dal punto di vista energetico, è un sistema aperto o, quanto meno, può essere considerato tale a tutti gli effetti rilevanti per la storia dell’uomo. E’ un sistema aperto perché riceve continuamente energia esterna e non prodotta da “lavoro terrestre”: l’energia solare che è catturata ed introdotta nel sistema terrestre, senza modificarne il bilancio energetico, ad ogni operazione “vegetale” di stale sistema. “Non c’e’ dunque che un solo limite allo sviluppo del consumo dell’energia ed è la sua parte utilizzabile dal flusso di energia che arriva sul nostro pianeta. Non sembra che questo limite possa essere raggiunto in un periodo storico determinabile. Noi possiamo, quindi, pensare a un crescente consumo di energia libera, compresa quella per la sintesi di alimenti, e questo permetterà all’uomo di liberare immense superfici oggi occupate da culture di base per trasformarle in parchi e dare a ciascuno, non soltanto i pane ma anche le rose.” (9)

Visto, dunque, in una dimensione globale, planetaria - quella in cui viene più suggestivamente presentato - il problema dell’eccesso demografico appare di assai dubbia autenticità ed il “Siamo Troppi!” nixonianamente derivatone si rivela - già a questo livello - un messaggio piuttosto mistificante.

Eppure nulla è più mistificante che presentarlo e discuterlo in una dimensione planetaria e globale: quasi che l’umanità sia un insieme uniforme, enumerabile per capi, e non un sistema differenziato, leggibile soltanto per strutture: quanto meno per popoli e per classi e per la loro storia.

Questa errata scelta metodologica - che privilegia le somme sulle differenze e le medie sulle varianze, che assume la società degli uomini isomorfa alla sua parti, che riduce i soggetti storici ad oggetti naturali - si ripete a diversi livelli (planetario, continentale, nazionale, ecc) ed è sempre carica di intenzioni e di funzioni. Infatti, come parlare della popolazione del mondo può servire a tacere le differenze tra i paesi, così parlare della ppolazione di un paese può confondere il divario demografico tra le sue regioni e totalizzare demograficamente una regione può oscurare la dialettica, anche demografica, tra i suoi gruppi sociali.

Infatti è possibile dimostrare la fragorosa contraddizione tra le previsioni demografiche pur formulate a brevi intervalli, a medio termine e per uno stesso paese.

Ma allora se non si è capcaci di dire quanti saremo, come si può dire che saremo, comunque, troppi? E per dire che siamo già troppi è corretto il modo di contrare quanti siamo oggi, mentre si compie la transizione da un’epoca in cui lo stato conteneva le imprese ad un alta in cui le imprese contengono gli stati: quando non è più chiaro se la demografia che conta è ancora quella degli stati o già quella delle imprese od entrambe, ma allora in che rapporto?

Se lo chiede chi, restando alla demografia scolastica, si rende conto che apparentemente il discorso sui quanti non è anche un discorso sui quali. (Nasce spontanea una domanda: assumendo questo come giusto, ci chiediamo se la follia eugenetica non sia stata un che la naturale conclusione di un discorso mirato al controllo demografico, NDR) Anzi che è soprattutto questo per questo è il messaggio: siamo troppi ma non tutti nello stesso modo: qualcuno è più di troppo degli altri: son gli altri ad essere di troppo. Infatti soltanto “una persona su 18 è americana… ogni giorno diventiamo una minoranza sempre più piccola. Noi aumentiamo del 1% all’anno, il resto del mondo cresce due volte più rapidamente. Intorno al 2000, una persona su 24 sarà americana; tra un secolo soltanto una persona su 46… Se il mondo diventa una grande comunità nella quale i beni sono ripartiti egualitariamente, allora noi siamo perduti. Quelli che si moltiplicano più rapidamente sostituiranno gli altri”(10)
Certamente il mondo non è oggi - ancora purtroppo - una comunità di questo tipo. Nulla vi è distribuito egualitariamente: tanto meno il volume del consumo di risorse e della contaminazione di ambiente per singolo uomo. Ma se dobbiamo contarci per sapere a quale limite di questo consumo e di questo inquinamento deve fermarsi l’incremento della popolazione umana allora sarà più corretto farlo per volumi piuttosto che per individui, oppure trovare una scala di conversione. Per esempio si possono contare gli americani in un modo diverso da quello usato dall’autore (americano) appena citato: cioè non in unità individuali ma in “indiani equivalenti” definiti come numero medio di indiani necessari a produrre lo stesso depauperamento della terra prodotto da un americano medio(11). Ora, la stima più prudente di questo valore è 25: venticinque indiani per un americano. Il che signidifa che quando facciamo la conta del mondo non dovremmo sommare 200 milioni di americani e 500 di indiani - come s’usa - ma 5000 milioni dei primi e 500 dei secondi oppure 200 dei primi e 20 dei secondi: e ciò fa sempre, naturalmente, 10 americani per 1 indiano anziché 2,5 indiani per 1 americano.

Il Mittente

E’ lui, questo americano, l’autore e il diffusore del messaggio che stiamo discutendo: è della sua identità, quindi, che vogliamo meglio informarci. Per riconoscere subito che si tratta di un’identità né esclusiva, né nuova.

Nel nostro discorso l’americano e l’indiano stanno a rappresentare ciascuno due realtà molto più complesse: da una parte del mondo sviluppatosi industrialmente nell’egemonia capitalistica e dall’altra il mondo condannato al sottosviluppo dallo sfruttamento imperialista. In questo senso, e con ragionevole misura, essi rappresentano anche - del conteso internazionale e dei contesti nazionali - la borghesia e il proletariato, il capitale ed il lavoro: infatti è con questi che nasce il cosiddetto “problema demografico”.

Nasce, si vuol dire, dalle contraddizioni intrinseche del mondo capitalistico di produzione: si ripropone, quindi, non nelle fasi di facile sviluppo ma in quelle di crisi. Pertanto ci sembra scorretto dire che il capitalismo è per sua natura e sempre malthusiana (12): di volta in volta esso fa le sue le idee di Malthus o le abbandona e le irride secondo convenienza, come dimostra - tra le altre - anche la storia del nostro paese.

Anzi, il favore del capitale è per la crescita della popolazione finché crescono la produzione ed i suoi mezzi: “tale incremento dei mezzi di produzione comporta l’incremento della popolazione operaia, la formazione di una popolazione corrispondente al capitale supplementare e che, nel complesso, ne superi persino i bisogni; cioè una sovrappopolazione di operai”(13)

Ma ogni qual volta la felicità del processo di accumulazione di capitale è turbata da una minaccia di crisi o da una rivendicazione del lavoro, il capitale - riscoprendosi, d’un tratto, neo-malthusiano - punta sulla deflazione delle nascite come sull’inflazione dei prezzi per scaricare ogni responsabilità della crisi sulla classe operaia e fargliene parare il prezzo finanziario e sociale. Non a caso, ci sembra, il movimento che ha in Malthus l’eponimo e in Townsend (14) l’antesignano nasce col XIX secolo in Gran Bretagna: cioè nel tempo successivo alla prima estesa applicazione delle “poor laws” (leggi per l’assistenza dei poveri) e nel paese che per primo si è messo sulla strada del capitalismo. “Il costo complessivo di quelle leggi era di 4 milioni di sterline all’anno nel 1800. Ben poco a confronto con le ricchezze della classe agiata, ma abbastanza per renderla inquieta. La risposta non si fece attendere. Townsend era già inquieto… da quando si era battuto contro l’approvazione delle leggi… [ed ora] affermava la necessità che i poveri riducessero il loro numero. In Francia, dove non esistevano poor laws… nessuno si sognò di suggerire la restrizione del numero delle nascie per riduerre la miseria.”(15) Malthus riformulò con scientifica brutalità le inquietudini di Townsend: “Un uomo che è nato in un mondo già occupato, se non può ottenere dai suoi genitori il sostentamento che gli puà loro chiedere e se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha diritto al più piccolo boccone di cibo, poichè, di fatto, egli è di troppo.”

Poi, per tutto il secolo così iniziato, il capitale inglese continuò a costruire le sue fortune sullo sfruttamento della popolazione operaia metropolitana e delle genti coloniali, senza mai darsi né pensiero né pena della sorte e della salute di milioni di uomini. E - giunto all’appuntamento della grande crisi del 1929 - si trovò un altro grande studioso, J. M. Keynes (16), e una schiera di economisti pronti ad asssolverlo dalle sue responsabilità per enormi e manifeste. Con l’avallo della loro scienza, fu orchestrata una campagna mirante a dimostrare che lo sviluppo demografico era dipeso da quello economico ma non poteva continuare durante la recessione: pertanto urgeva il controllo delle nascite come antidoto della miseria derivante dalla mancanza di tale controllo. Altri sostenne che la miseria era invece figlia naturale del sistema di produzione, come la nuova flagellante ondata di disoccupazione che non significava un eccesso demografico ma un difetto sociale. E il potere, ancora una volta, fu malthusiana o il suo contrario secondo convenienza: “… dal 1930 al 1939 questi due atteggiamenti prevalsero alternativamente. Sotto l’effetto della crisi, si era sviluppato il pessimismo e le stesse autorità religiose si rassegnarono al controllo delle nascite, come è provato dalla conferenza di Lambeth (1930). Invece all’approssimarsi della guerra, superata la crisi economica, si venne affermando la tendenza popolazionista. La conferenza metodista del 1939 ricordo lo stretto dovere dei genitori di accettare la nascita dei bambini.”(17)

Ebbene, l’inglese di ieri e l’americano di oggi - così come altri in altri paesi e ad altre date - non son che interpreti diversi per un unico personaggio: il potere del capitale che, soprattutto intento alla trasformazione del lavoro umano in suo profitto, annuncia - secondo e quando sia il suo interesse - “siamo troppi” pensando senza incertezza ed insinuando senza scrupoli “siete”. Infatti chi emette e diffonde tale messaggio non ha mai ragione né intenzione di riferirlo a sé. Perché se è vero che, a livello planetario e a livello nazionale, il decollo demografico è coinciso con quello industriale è altrettando vero, ma più importante, che i due fenomeni mostrano segno opposto quando sono considerati nel confronto tra paesi diversi e nel confronto tra regioni diverse dello stesso paese. In altre parole, i paesi che hanno avuto il maggior sviluppo industriale sono scesi a saggi estremamente bassi di incremento demografico mentre i paesi confinati nel sottosviluppo hanno visto crescere i saggi di tale incremento. Analogamente nei paesi dove lo sviluppo dove lo sviluppo industriale capitalistico ha divaricato la distribuzione dei redditi sono le classi del privilegio che hanno visto ridursi la loro fecondità e, per converso, aumentare relativamente quella delle classi del lavoro.

A loro, dunque - alle classi e ai paesi di un unico privilegio -, appartiene il messaggio del qule sono ormai scoperte la preoccupazione e l’intenzione.

La preoccupazione è che il rapporto tra dominanti e dominati - ad ogni livello di aggregazione demografica - possa diventare così sfavorevole ai primi sul piano numerico da non poter esser più sostenuto sul piano politico, mentre le genti che sembravano eternamente condannate ed arrese prendono coscienza del loro stato e si dispongono per combattere per il loro riscatto.

L’intenzione è di precostituire alibi e legittimazioni di nuove violenze a tutte le scale del loro possibile esercizio:
infatti solo la distribuzione del benessere può determinare la contenzione demografica - come è ormai molteplicemente dimostrato - la contenzione demografica senza distribuzione del benessere non può avvenire che repressivamente e selettivamente, cioè violentemente, quale ne sia il modo, il tempo ed il luogo: da Auschwitz al Vietnam, dall’Angola al Bangla Desh, dall'Indonesia al Sud America, ovunque il potere capitalista e imperialista ripete ancora con le parole ascoltate da Engels un secolo fa:
“Voi altri, voi poveri, avete il diritto di esistere, ma non soltanto di esistere: non avete il diritto di moltiplicarvi né quello di vivere umanamente.” (18)

Il Destinatario

Questa è, forse, ancor oggi, la versione più esplicita del messaggio neomalthusiano ed è, forse, l’indicazione più precisa del suo mittente e del suo destinatario. Che sia letto alla Casa Bianca a Washington, commentato in un Club di Londra o ripetuto in un salotto di Milano non fa alcuna differenza come non fa molta differenza che sia rivolto rispettivamente ai popoli del Terzo Mondo, alle genti del Bengala o ai contadini lucani. E’ sempre l’americano di tutto il mondo che parla all’indiano di ogni paese e vuole essere inteso: “Per dirla con semplicità, il più grande ostacolo al progresso economico e sociale della maggior parte dei popoli nel mondo sviluppato è la crescita rampante della loro popolazione.” (19) Così sentenzia R. McManara, presidente della Banca Mondiale. E, allora, come si fa ad evitare questa crescita? Imponendo il controllo demografico, risponde l’economista americano Stephen Enke, che soggiunge: “Cinque dollari spesi per il controllo delle nascite rendono più di cento dollari di aiuti al Terzo Mondo”. (20)

Ma se le pressioni di questo tipo non sono sufficienti? Ebbene, l’industria farmaceutica potrebbe fornire una sostanza contraccettiva da somministrare inavvertitamente a intere popolazioni, con o senza il loro consenso. “Questa prospettiva può non essere lontana, poiché la Upjohn ha gia prodotto una sostanza che, sciolta nell’acqua, riduce in misura programmabile la fecondità dei topi e dei conigli che la bevono. E’ insapore ed innocua per i roditori: poco tossica per l’uomo.” (21) Alternativamente - incalzano già da tempo i fratelli Paddock - non c’è che da applicare ai popoli affamati il triage, la regola del campo di battaglia dove è giocoforza scegliere, tra i feriti, quelli che vanno curati e quelli da lasciare alla morte. Così gli Americani, devono scegliere i popoli cui inviare alimenti e quelli cui non dare più niente: questi ultimi vanno cercati particolarmente tra coloro - precisano i Paddock - che non hanno niente da dare in cambio, nemmeno materie prime o basi militari o garanzie politiche per la tranquillità degli investimenti. (22)

Queste citazioni potrebbero continuare lungamente, fino a comporre una nera antologia del cinismo e della brutalità cui giungono la logica e la scienza dell’imperialismo capitalista. Ma le poche qui raccolte ci sembrano sufficienti a ricavarne altre lezioni.

Anzitutto ci insegnano che il “siamo troppi,” oggi risonante in ogni dove, come viene chiaramente traducendosi in un “siete” non appena se ne individua il mittente così si scopre, all’interno di questo “siete,” tutta la sua selettività repressiva quando se ne riconosce il destinatario: a tal punto, da individuare nei “”troppi” che, in ogni tempo, nascono tali ancor prima di essere contati. Poi, che uno dei suoi maggiori obiettivi è indurre nel destinatario la falsa coscienza della propria numerosità come malattia o come il sintomo di una malattia, la miseria, inflitta dalla colpa altrui. Onde si vuol far credere che la povertà numerosa si guarisce intervenendo sulla numerosità dei poveri (l’effetto) e non sulla povertà dei numerosi (la causa).

Ancora che si mobilita per questo intervento, come per ogni altro della stessa ispirazione, tutto l’apparato sciento-tecnico perchè imprima sui disegni del potere il marchio di qualità della scienza in cambio del rinnovato riconoscimento della sua capacità a gestire ogni problema dell’uomo. Infine che si vuol preparare al potere in crisi la possibilità di uscirne a qualsiasi prezzo, girandone il pagamento al destinatario del messaggio che diventa, contemporaneamente, il capro espiatorio del risentimento generale. Ma prima e dopo tutto ciò, c’è altro che colpisce chi negli ultimi anni sono stati scritti all’insegna del “siamo troppi” ed è - anche in autori di indubbia valentia e in studiosi si sicura competenza - l’inclinazione comune a parlare di popolazioni dimenticando il popolo, di vite ignorando la vita, di uomini annullando l’uomo: insomma ad inventare, per un messaggio altrimenti improponibile, un destinatario di comodo alla cui misura ridurre, pur violentemente, quello reale.

E’ così che nell’ottica solo apparentemente scientifica di un naturalismo forzosamente applicato alla società degli uomini, questi sono contati una volta di più come unità di lavoro, consumo e riproduzione. Ogni essere umano fa due gonadi, ogni uomo due braccia, ogni donna un utero, ogni bambino una bocca. A questa stregua - che è quanto di meno veramente scientifico si possa immaginare - un indiano è soltanto una scimmia nuda di pelle oscura: non ha storia né cultura, non conosce il tempo né lo spazio, nen s’è dato ragioni né motivazioni. Si può andare da lui e dai suoi fratelli per dirgli “Siete poveri perchè siete molti” senza sapere che l’intelligenza del loro popolo ha già capito e detto “SIamo molti perchè siamo poveri”. Si può assediare il loro villaggio con la più martellante campagna contro le nascite - fino a proporre la sterilizzazione in cambio di rupie - senza capire perché non una d’esse sortisce qualche apprezzabile effetto. Naturalmente è un indiano a capirlo, Mahmood Mamdani, il quale - analizzando le premesse e le conclusioni di queste campagne - dimostra che il loro fallimento non è dovuto a difetto di esecuzione ma a difetto di comprensione.

Non si è compreso, egli dice, la cosa più semplice e più importante, con la quale deve confrontarsi ogni altra: nella situazione data è interesse della famiglia indiana, e non contrario al suo interesse, avere molti figli, perché ad essa ne è affidata la sopravvivenza. Lo dice anche Yusuf Ali Eraj, africano, il quale aggiunge con disarmante semplicità: “Il primo desiderio di ogni uomo è assicurare ai suoi figli un livello di vita migliore del suo. Ma questo desiderio non può realizzarsi nelle società dove gli uomini vivono tuttora a livelli di mera sopravvivenza. E’ soltanto dopo aver superato questo livello, che la preoccupazione principale dell’uomo passa alla provvista di cibo per la sua famiglia alla ricerca di migliori opportunità per i bambini: è allora che comincia ad emergere il desiderio di famiglie più piccole”(23)

Ma allora cosa significa veramente avere un bambino in più: veramente per una famiglia indiana e veramente per una famiglia americana? Rispondere a questa domanda aiuta a capire che la motivazione generativa dell’uomo è soprattutto sociale anche se, naturalmente, è vissuta come individuale.

Infatti ogni uomo di una società si riproduce, oltre che in base a consapevoli intenzioni, per effetto di impulsivi e scelte che appartengono alla sua storia particolare e soggettivamente unica.

Ma ogni società di uomini si riproduce - ed è questo ciò che conta perché è ancora questo a determinare quello - per motivazioni collettive che derivano profondamente dalla sua struttura, intesa come sistema dei rapporti di produzione, e della sua sovrastruttura, intesa come tessuto di cultura, leggi e costumi.

Allora, finalmente, si capisce come sia soltanto una società ricomposta - perchè ha le laceranti contraddizioni del capitalismo - che, unificando il mittente ed il destinatario di un messaggio demografico, può fare di questouna scelta non più repressiva ma liberatoria. Perché è solo il popolo che - dove e quando si realizza come soggetto storico sovrano - può determinarsi liberamente, e, allora sì, efficacemente come popolazione. (24)

Giulio A. Maccararo.


Collana Medicina e Potere. Feltrinelli (prima edizione 1974)
Mahmood Mamdani - Il mito del controllo demografico
Prefazioni di Giulio A. Maccararo.

Riferimenti:
1 R. Nixon, Messaggio del Presidente egli Stati Uniti sulla crescita della popolazione, 91° Congresso, 1a sessione, Doc. n. 91-139
2 D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers e W. W. Behrens, I Limiti dello Sviluppo, Biblioteca della Est, Mondatori, Milano 1972.
3 F. De Closet, En Dander de progrès, Donoel, Parigi 1970.
4 J. B. Calhoun, Control of Population: Numbers, in “Ann. N.Y. Acad. Sci.”, n. 184, p. 148, 1971
5 H. Hoagland, Why Fertility control?, Ann. N.Y. Acad. Sci., n.184, p. 144, 1971
6 W. Paddock e P. Paddock, Famine - 1975!, Little Brown, Boston 1964.
7 B. Commoner, Il cerchio che si chiude, Garzanti, Milano 1972.
8 AA.VV., A blue-print for survival, Londra 1971
9 V. Labeyrue, Malthusianisme et écologie, in “La Pensée,” n. 167, 3, 1973.
10 G. Hardin, The Survival of Nations and Civilization, In “Science,” n. 172, p. 1297, 1971
11 Calcolo di W. Davis citato da H. Hoagland, vedi nota 5.
12 T. R. Malthus, nato nel 1766 e morto nel 1834 in Inghilterra. Pastore anglicano, coltivò studi economici e demografici. La sua opera più famosa si intitola Saggio sul principio della popolazione ed enuncia il principio - poi dimostratosi errato - che la popolazione, in mancanza di freni, tende a crescere con ritmo geometrico mentre il cibo disponibile può crescere soltanto con ritmo aritmetico. Dopo di lui si usò indicare col nome di “malthusianesimo” il movimento dei propugnatori del controllo delle nascite.
13 K. Marx, Il Capitale, libro III, sez. 3, p. 266, Editori Riuniti, Roma 1970.
14 J. Townsend, nato nel 1739 e morto nel 1816 in Inghilterra. Ha pubblicato nel 1786 una Dissertazione sulla legge dei Poveri per contrastare l’approvazione di tale legge. A quei tempi usava firmare non col proprio nome ma con uno pseudonimo. Townsend si firmò “Una persona che vuole bene all’umanità"
15 A. Sauvy, Public opinion and the population problems, in E. Szabady (a cura di), World Views of population problems, Akademiai Kiadò, Budapest 1968.
16 J. M. Keynes, economista, nato nel 1883 e morto nel 1946 in Inghilterra. Fin che visse fu molto discusso scientificamente e molto ascoltato politicamente. Oggi molto meno.
17 M. Reinhard, A. Armengaud e J. Depaquer, Storia della popolazione mondiale, Laterza, Bari, 1971.
18 F. Engels, La Situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1972
19 R. S. McManara, Indirizzo all’Università di Notre Dame, 1° Maggio, 1969.
20 S. Enke, Intervento alla Conferenza della Popolazione, Belgrado 1965.
21 H. Hoagland, op. cit.
22 W. Paddock e P. Paddock, op. cit.
23 Y. A. Eraj, Control of Population Growth and family planning, in “Ann. N.Y. Acad. Sci.,” N 184, p. 156, 1973
24 Nelle Letture sul Capitale, Editori Riuniti, 1951, F. Engels ha scritto: “Esiste certamente in teoria la possibilità che il numero degli uomini cresca al punto da dover porre un limite al suo aumento. Ma se, un giorno, la società comunista si vedrà costretta a pianificare la produzione degli uomini così come avrà già pianificato la produzione delle cose, sarà essa ed essa sola che ci riuscirà senza difficoltà”.




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