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La privatizzazione del mondo

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Jean Ziegler [28 mar 2003]
La privatizzazione del mondo

Si chiama Tina. È l’acronimo inglese per “There is no alternative”: non ci sono alternative, e per Noam Chomsky è la forma di totalitarismo che domina l’attuale scena mondiale. Far credere a tutti che non sia possibile altra società che quella in cui dominano capitalismo senza briglie e multinazionali è il modo più efficace per sopire ogni volontà di ribellione. I manifestanti che in questi mesi, a ogni latitudine del pianeta, portano la protesta in piazza gridano che “un altro mondo è possibile”, che “il mondo non è in vendita”. Ma sono slogan smentiti dai meccnismi di funzionamento della finanza globale. Non c’è da essere ottimisti. Almeno questa è l’opinione del sociologo svizzero Jean Ziegler che da poco ha pubblicato lo studio La privatizzazione del mondo (Marco Tropea Editore).

Secondo Ziegler, relatore all’Onu per il diritto all’alimentazione, la globalizzazione ha molto peccato. E il rosario degli errori ha decine di grani: dalle crisi economiche in Argentina e Brasile, alla devastazione della Nigeria per mano di dittatori e società petrolifere, dallo scandalo delle banche alle Bahamas dove capitali legali e denaro sporco si mescolano, alla popolazione della Mauritania decimata da una riforma agraria insensata. L’analisi è serrata e parte dalle fonti: numeri, storie di persone con nomi e cognomi, a riempire un palcoscenico di attori che vivono anonimamente ma in prima persona ingiustizie con carta d’identità.

Ziegler usa il vocabolario della battuta di caccia. Definisce «predatori» gli speculatori di borsa e i dirigenti delle multinazionali, sostiene che è in atto una gigantesca compravendita del mondo in cui gli attori lavorano dietro le quinte. Poi deinisce le responsabilità: «Tra tutte le oligarchie che costituiscono il cartello dei padroni del mondo, quella nordamericana è di gran lunga la più potente, la più creativa la più vitale». Così considerare gli Stati uniti uno stato nazionale non ha alcun senso: «Sono un impero le cui forze armate, insieme ai sistemi al gigantesco apparato di spionaggio e d’informazione, garantiscono un’espansione oligarchica costante su tutto il pianeta».

Dunque Tina è davvero destinato a diventare l’unico slogan possibile? Che fine hanno fatto le alternative? Per Ziegler queste alternative esistono e resistono, ma non sono stati nazionali, agonizzanti nelle lro finzioni e colpiti a morte dalla «violenza del capitale»; non sono l’Onu, dove operano i «pompieri piromani» del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Una voce di speranza viene invece dalla «nuova società civile planetaria», i movimenti antiglobalizzazione che da Porto Alegre in poi hanno riempito le piazze. Ma anche «i sindacati, i movimenti contadini, delle donne, i popoli autoctoni, gli ecologisti e le organizzazioni internazionali». Tutti, insieme, possono opporsi al modello economico e sociale oggi dominante nell’impero e, accertato il crollo del potere verticale dello stato, creare forme di legame orizzontale fra individui, fra cittadini.

La critica ai meccanismi della globalizzazione si fa radicale nell’opera di Carlo Gambescia direttore della collana di argomentazioni antieconomiciste Contra. Il suo studio più recente, Mercato (Ed. Settimo Sigillo), analizza di nuovo le regole auree del sistema che disciplina i rapporti economici e sociali del pianeta. Ma parlando di alternative di sviluppo alla «Santa Trinità» (Fmi, Wto, Banca mondiale), la distanza da Ziegler cresce. «Se la società civile gioca un ruolo molto positivo nella fase critica, ha meno peso in quella costruttiva - osserva -. Economia e sociologia si basano su rapporti di forza: per ora la società civile non ha un potere contrattuale in grado di opporsi al peso e al potere delle multinazionali e dell’impero americano». Come a dire che oggi le possibilità di creare valide alternative sono remote, schiacciate dal peso degli Stati uniti, che non opera basandosi sul porprio potere effettivo, ma sfruttando la debolezza delle altre aree geopolitiche».

In questa visione gli slogan di piazza non sono un punto d’arrivo, ma puro momento propulsivo. «Servono elaborazioni più profonde, capaci di generare una cultura nuova», ammonisce Gambescia. Che rilancia: l’errore di tutti i gruppi comunemente ricondotti alla galassia no global è di opporre a un universalismo cattivo un universalismo buono; il problema non è questo universalismo, ma l’universalismo in quanto tale. Il costante appello ai diritti umani, per esempio, mette in luce la natura ambigua e l’inefficacia dei movimenti. «È un’attenzione lodevole, ma nella pratica cosa significa - si domanda il sociologo -? Oltre a essere un obiettivo troppo vasto e teorico, può diventare anche pericoloso. La concezione dei diritti nel mondo occidentale è diversa da quella che troviamo in India, in Cina, in Africa».

Su un terreno più filosofico che sociologico si approfondisce il solco tra i due autori. Gambescia, all’individuo illuministicamente inteso, preferisce il concetto di comunità: una forma politica in cui i rapporti di reciprocità e solidarietà precedono quelli utilitaristici del profitto individuale, che domina invece quando il vivere insieme si basa sull’idea di accordo, di contratto fra individui. Spiega Gambescia: «I no global vorrebbero un mercato più umano, si dovrebbero invece trovare altre forme di economia. Economia e mercato non sono la stessa cosa. Il mercato, in particolare quello capitalistico, è solo una delle forme assunte storicamente dall’economia». Altre forme di economia sono possibili. Continua Gambescia: «Per esempio pensare a un frazionamento delle grandi aree economiche, incoraggiar un’economia autocentrata. Qualcosa si muove, come mostra la nascita dei sistemi di scambio locale non monetario in Francia (Sel) e le banche del tempo. Ma queste iniziative non possono avere peso che all’interno di raggruppamenti politici nuovi. Forse l’Europa potrebbe rappresentarne un possibile futuro?»

Si preparano tempi difficili, per i quali occorrono idee chiare e uomini decisi, capaci di fare scelte controcorrente. Ma la storia può rimettersi in cammino. Anche se, conclude Gambescia, «nella battaglia sociale contro il mercato per ora scorgiamo solo vaghe idee e truppe. Mancano i condottieri». In fondo resta solo da dimostrare che Tina è un astuto inganno.



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