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Business Farmaceutico, La Mala Ricetta: Farmacia Italia, promozione della malattia

Farmacia Italia, promozione della malattia
20 Giugno 2004
Fonte: Comedonchisciotte

L'informazione scientifica dovrebbe farla lo Stato, che invece la appalta alle industrie. Così agli informatori non viene fatto un corso di comunicazione. Ma di tecniche di vendita. Intervista a un protagonista

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«Sono un frustrato e un incazzato; l'ordine di importanza è a vostra scelta, in ogni caso, sono entrambe le cose. Questo libro è una vendetta, tarda, inutile e vana ma sicuramente uno sfogo e un contraccambio. Dimenticavo, sono anche un vigliacco perché mi nascondo dietro l'anonimato ma, se avrete la pazienza di seguirmi, capirete anche perché». A quattro anni di distanza dalla pubblicazione del libro La Mala-Ricetta. Dieci geniali mosse del marketing farmaceutico (Fratelli Frilli Editori, pp. 176, euro 12,39), l'autore Franco Bellé non si nasconde più dietro l'anonimato. Ma continua a definirsi «incazzato» e «frustrato», probabilmente per mettere a tacere le tante, prevedibili invettive dirette alla sua persona, visto che sul piano dei contenuti le sue rivelazioni sui mali dell'industria farmaceutica sono praticamente inattaccabili, documentate e rigorose. Le testimonianze di Bellé sui mali del marketing e dell'industria farmaceutica, sulle pressioni sui medici per far prescrivere l'uno o l'altro dei farmaci in commercio, sui cambiamenti mentali delle persone rispetto alle medicine, sono ancor oggi più che mai attuali.

Lei è stato un informatore scientifico del farmaco, poi a fine carriera si è "pentito" e ha scritto questo libro sul marketing farmaceutico. Giusto?

Ho lavorato per dieci anni in un'industria che produceva materiali per laboratori d'ospedale. Ed è proprio negli ospedali, nei corridoi, che ho avuto modo di conoscere diversi informatori. Dopo dieci anni sono entrato in un'azienda appena nata che assumeva informatori con contratto d'agenzia. Poi sono passato in un'azienda di squali che non produceva neppure l'aspirina - la comprava all'estero e poi la rivendeva con un altro nome a forza di pubblicità.

Il punto di svolta, spiega nel libro, è l'introduzione del sistema nazionale sanitario. Cosa cambia dal momento in cui lo stato rimborsa non più il singolo cittadino ma l'industria farmaceutica?

Intanto, diventa più facile prescrivere i farmaci. Se sono io a dover pagare e aspettare il rimborso della mutua, ci vado piano e ci penso due volte prima di acquistare. Secondo, in quel periodo inizia la pratica del "co-marketing". Fino allora in Italia non era permesso brevettare i farmaci. Poi, dopo lo scandalo di una molecola rubata a una multinazionale, lo stato italiano ha dato il permesso di brevettare i farmaci: se una multinazionale vuol vendere un farmaco in Italia, è obbligata a darlo in co-marketing ad altre aziende italiane, anche se queste non hanno fatto alcuna ricerca. Non solo. Queste aziende che non producevano e si limitavano a vendere in co-marketing, erano quelle che avevano, per capirci, Poggiolini nel libro-paga. Così, l'azienda straniera - anche se sana - non aveva la registrazione del farmaco se non lo dava in co-marketing alle aziende dotate di amici politici, mentre chi aveva il farmaco senza produrlo si dava da fare per venderlo a ogni costo. I metodi son quelli che conosciamo: i regali ai politici - lo scandalo più grande nei primi anni '90 è quello di Poggiolini - e le pressioni sui medici.

Ma il medico non ha il dovere di valutare con criteri scientifici i farmaci che prescrive ai propri assistiti?

Il medico è preso in un meccanismo, tipo spacciatore di stupefacenti. Se la molecola di un farmaco è valida ma gli arriva sotto quattro diversi nomi commerciali, fra questi sceglierà quello che si ricorda di più. E si ricorderà, fra questi diversi marchi, quello che gli ha fruttato la stilografica d'oro che ha sulla scrivania o la partecipazione a qualche congresso. La soglia di percezione della corruzione in questo modo si abbassa. Si fanno delle cose senza pensare che si tratta di corruzione. Tanto lo fanno tutti...

Nonostante la grande offerta commerciale di farmaci molti dei quali vengono venduti al banco nelle farmacie, ci sono prodotti praticamente uguali, basati sullo stesso principio attivo. E' così?

Bisogna distinguere tra farmaci simili e farmaci identici. Nella farmacologia italiana si parla di classi. Ad esempio, le statine, quelle che servono ad abbassare il colesterolo: ci saranno una dozzina di molecole che appartengono a questa classe. Poi per ogni molecola si arriva ad avere quindici nomi diversi, ma si tratta della stessa identica cosa. Qui vanno a nozze. Due o più case farmaceutiche possono produrre farmaci simili o addirittura identici. Se uno prende l'Aulin perché ha mal di testa o il Mimesin o la Mimesulide, ha in mano esattamente lo stesso prodotto, persino con gli stessi eccipienti. E' addirittura la stessa azienda a mettere in vendita diverse linee commerciali di uno stesso farmaco. Il marketing prevale sui criteri scientifici, l'unico obiettivo è aumentare al massimo le vendite.

Non sarà che è cambiato anche l'atteggiamento culturale delle persone di fronte ai farmaci? Chi va in farmacia può comprare al banco, senza prescrizione medica, medicine per tutti i gusti e di tutti i colori...

C'è sicuramente un'influenza della pubblicità nel consumo di questi farmaci. Ci sono poi farmaci per i i quali occorre la prescrizione medica: in questo caso la pubblicità è vietata. La legge prevede però che si possa informare il medico delle caratteristiche del farmaco. Qui non valgono le leggi della pubblicità in generale, occorrono strategie di marketing mirate alla persuasione del medico, strategie efficaci. Le aziende sono più interessate ad informare e convincere il medico che non alla qualità dei farmaci.

Ma in base a quali criteri si fa ricerca?

Un tempo si faceva ricerca su tutte le malattie. A partire dagli anni Ottanta, invece, le aziende si sono chieste: quali sono le malattie più diffuse nel mondo occidentale? E di queste malattie, quali sono quelle croniche? Su queste due categorie di malattie si è concentrata la ricerca. Per ovvi motivi: quelle diffuse perché rappresentano un maggiore bacino di utenza, quelle croniche perché creano un legame di dipendenza dal farmaco prolungato nel tempo. Un esempio? La ricerca nel campo dell'ipertensione. Per carità, è un problema grossissimo, eppure il miglior farmaco - non lo dico io - per l'ipertensione è il Lisoton che prendeva mia nonna negli anni Settanta, un diuretico che abbassa la pressione. Invece, adesso abbiamo centinaia di farmaci. Lo stesso discorso vale per il Viagra: capisco che l'impotenza sia un problema, però è assurdo che si spendano miliardi per trovare un farmaco che curi l'impotenza. Poi, magari, c'è il polivaccino per la malaria e nessuno lo produce, nonostante sia pronto da anni.

Insomma, esiste una gerarchia tra malattie più remunerative e malattie sulle quali non conviene investire?

E' così. Va detto, però, che esistono anche industrie serie che producono farmaci per le malattie rare. La situazione, però, non è ancora disperata. I medici coinvolti nell'operazione "Giove" della Guardia di Finanza sulla multinazionale Glaxo Smith Kline rappresentano appena il cinque per cento del bacino dei medici italiani. Sono sempre gli stessi, quelli che "prendevano" dalla Glaxo, prendevano anche da altre aziende. Il giochetto viene proposto a quelli di cui si sa con certezza che ci stanno.

Quanto spendono le aziende, in rapporto, nella ricerca e quanto in queste "attività promozionali"?

Il conto è semplice. Se il farmaco costa cento, trenta lo guadagnano il farmacista e il grossista. All'azienda rimane il settanta, al quale va aggiunto un otto per cento che lo Stato riconosce come incremento sul prezzo perché le aziende facciano informazione scientifica. L'informazione dovrebbe farla lo Stato, invece la appalta alle industrie...

Le aziende devono informare sulla validità scientifica dei farmaci che vendono? Non è un conflitto d'interesse?

Lo Stato dice all'azienda: tu devi informare su come funziona il tuo farmaco. Figurati se ti raccontano la verità! Non solo: agli informatori non viene fatto un corso di comunicazione - perché imparino a farsi capire. Gli viene fatto, invece, un corso di tecniche di vendita, gli insegnano come vendere, il che è in contrasto con quanto recita la legge.

A quanto ammonta, in percentuale, il ricavo dell'azienda?

Circa il trenta per cento al netto. Di questo guadagno le aziende serie reinvestono circa i due terzi in sviluppo, ricerca e innovazione, e l'ultimo terzo va in congressi e attività del genere. Le aziende poco serie, quelle che si limitano ad attività commerciali e non producono niente, spendono invece in attività "promozionali". Se poi facciamo un confronto con l'Europa, le aziende farmaceutiche italiane investono in ricerca il 2, 32 % del fatturato; quelle francesi il 7, 39; quelle tedesche l'8, 18 e quelle inglesi il 10, 31.

In conclusione, la responsabilità non è solo del singolo medico, ma anche e soprattutto delle aziende. E' così?

Il medico è in un certo senso una vittima, anche se interessata e consenziente. Tuttavia, se non ci fosse l'azienda a offrirgli un congresso e altri regali, magari queste cose se le pagherebbe con i soldi suoi. E, infine, qualche responsabilità ce l'ha anche il cittadino: ci sono molte persone che rifiutano di comprare i farmaci generici perché credono che siano inefficaci. Sono la stessa cosa. Su tutto domina un sistema, dalla più piccola azienda alla più grande multinazionale, che ha perso di vista ogni criterio etico.

Tonino Bucci 

Fonte: http://www.liberazione.it
14.06.04